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22 set 2013

Arte


"Oreste De Dominicis, l'arte, il racconto e la magia del ricordo"

La piazza di un piccolo paese come Pratola, d’estate è più che un’oasi e un ricetto per l’afa della controra, più di un luogo dove lasciar sonnecchiare i pensieri al calare della sera, davanti a un bicchiere fresco colmo di menta e ghiaccio
. È un posto straripante di opportunità, per chi ha gli occhi dischiusi ed è pronto a coglierle prima che si perdano tra le chiacchiere di chi non sa vivere la strada. Ero proprio in piazza Garibaldi a Pratola Peligna quando sono stato fermato da un signore di mezza età che mi ha invitato a una mostra che si sarebbe tenuta di lì a poco a Palazzo Colella. Abbiamo parlato per pochi minuti ma quelle rade frasi sono state più graffianti di quanto non sarebbe potuto essere un qualsiasi depliant o un semplice poster promozionale. Hanno fatto germogliare in me la curiosità, l’arma principale della cultura e della memoria storica, verso un eroe intellettuale che è stato il padre della fotografia pratolana e uno dei principali artisti che hanno vissuto nel nostro paese di quasi diecimila anime, molte delle quali, anche perché troppo giovani, non ricorderanno il volto o il nome di Oreste De Dominicis.
Tra i diversi locali di Palazzo Colella, durante la mostra organizzata da Lisa Zavarella e presentata da Maria Grazia Fabrizi dello studio "Contra/Sto Productions" di Pratola Peligna, ho potuto apprezzare i lavori dell’artista realizzati tra gli anni ‘50 e ’70, divisi per sezioni in conformità a soggetti e tecniche. Dalle fotografie che hanno immortalato alcuni degli attimi più considerevoli della storia calcistica cittadina, a quelle più distintamente raffinate passando per vere e proprie gemme di neorealismo borghese, raffiguranti paesaggi di vita familiare, dentro e fuori dalle mura domestiche. Oltre alla fotografia, era presente un’altra ripartizione rivolta ai ritratti a matita e pennello, più due orientate al lavoro filmico, con proiezione in loop di filmati storico-sociali e storico-calcistici.
Passeggiare all’interno del palazzo, avvolto e cullato dalle figurazioni eternate da Oreste De Dominicis, ha simboleggiato un viaggio psichico nel tempo carico di pathos e  ilare malinconia, per chi, trentenne come me, ha nella fantasia certe visioni solo come evocazione dei ricordi dei padri o dei nonni. Certamente i più interessati all’aspetto tecnico avranno saputo apprezzare la padronanza dello strumento messa in mostra nella raffigurazione complessa del movimento sportivo, che, se è carico d’enfasi nel risultato finale, è anche vero che presenta difficoltà oggettive senza paragoni, trattandosi di soggetti legati appunto all’atto spontaneo e non alla posa e alla preparazione. In tal senso sono altresì apprezzabili gli scatti artistici e familiari del periodo dopo guerra che, al contrario, si fondano proprio su un concetto di posa rivoluzionario per il tempo e, anche oggi, di notevole impatto. Ogni scenario fotografico va ben oltre l’accidentalità, diventando piuttosto una pittura nella quale ogni dettaglio è sposalizio perfetto tra casualità, scelta accorta dell’ambientazione e inserimento di elementi utili ad accrescere la portata emotiva dell’opera e rendere al meglio l’amore in esso contenuto.
Passeggiare tra le icone celebrate da Oreste De Dominicis, tra le rappresentazioni dei volti e dei luoghi che l’hanno ispirato, è stato qualcosa di sovrastante il semplice gusto estetico per le immagini popolari. È stata la riscoperta di un tempo perduto, di un’epoca lontana eppure radicata nella nostra essenza, è stato un pretesto per riscoprire cosa siamo stati e quindi scoprire chi siamo, magari imparando ad apprezzare un genio donatoci dal ventre materno della nostra terra Peligna.

Silvio Pizzica

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