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1 feb 2014

Attualità

SUL NESSO ISTRUZIONE-LAVORO

I discorsi politici che attribuiscono all'istruzione le cause della disoccupazione non sono solo discorsi ideologici ma sono anche discorsi stupidi. Almeno per due ragioni: 1) fino a prova contraria sono le politiche economiche a far crescere o a far diminuire le opportunità lavorative. La crescita dei livelli di occupazione e di disoccupazione dipende dalle scelte di politica economica; 2) ipotizzando anche per assurdo che la causa della disoccupazione debba essere rintracciata nei bassi livelli d’istruzione scopriamo non solo che l’Italia è, tra i paesi Ue, quello che più di tutti taglia gli investimenti destinati all'istruzione ma è anche il paese che non riesce nemmeno a garantire un’occupazione ai suoi (pochissimi) laureati.

Dal Rapporto Ocse sull’istruzione [2012], infatti, si apprende che in Italia i laureati corrispondono appena al 15% dell’intera popolazione (la media Ocse è del 31%). Un dato che colloca il paese al penultimo posto della classifica davanti alla sola Turchia (13%). Scorporando i dati per fasce d’età, i laureati risultano essere l’11% nella fascia 55-64 anni e il 21% nella fascia 25-34 anni (anche in questo caso il paese si colloca al penultimo posto, davanti alla sola Turchia, che fa registrare un 17% di laureati nella fascia 25-34 anni).
Le risorse pubbliche che il paese destina all’istruzione corrispondono al 4,7% del Pil (la media Ocse è del 5,8%) e al 9% della spesa pubblica complessiva (la media Ocse è del 13%).
Sul rapporto istruzione-lavoro (secondo i dati diffusi da Unioncamere e Ocse), nella fascia 15-64 anni tra gli occupati la quota di laureati è pari al 18,7% (la media europea è del 34,7%), meno della metà della Gran Bretagna (39,9%) e al di sotto di Francia (35,2%) e Germania (28,9%). La differenza non cambia se il campione si restringe alla fascia d’età 25-49 anni. Tra gli occupati, i laureati rappresentano appena il 20% (la media europea del 34,7%), di gran lunga al disotto di Gran Bretagna (45,5%) e Spagna (43,8%).
Quella che è in atto, in estrema sintesi, è una tendenza in cui si intersecano tutti insieme i seguenti fattori: l’aumento inarrestabile della disoccupazione, causato dalla continua esportazione degli investimenti all’estero in un processo ormai in corso dai primi anni ’90 (quando all’insegna del libero mercato venne definitivamente abolita ogni restrizione ai movimenti di capitale); il conseguente declino del sistema industriale del paese (si vedano di L. Gallino: “La scomparsa dell’Italia industriale”, “Italia in frantumi”); lo smantellamento delle conquiste del lavoro frutto delle importanti lotte degli anni Settanta (contratto nazionale, di categoria, pensioni, riduzione dell’orario di lavoro, limitazione dello straordinario, aumenti di salario, riduzioni delle differenziazioni salariali, etc.); la privatizzazione di ampi settori del pubblico (aziende, sistema bancario, industrie, sistema di welfare, servizi, infrastrutture, etc.); la precarizzazione dei rapporti di lavoro, facendo registrare una pesante regressione in termini di salari, di tutele giurisdizionali faticosamente conquistate, di prospettive, di sicurezza e soprattutto di diritti (muovono in questa direzione il «pacchetto Treu», 1997, e la «legge Biagi», 2003); la violazione sistematica della legalità e l’estendersi del fenomeno della corruzione; la forte limitazione dell’azione sindacale (emblematici i casi in cui i sindacati che non firmano accordi-capestro non vengono riconosciuti dall’azienda che minaccia lo spostamento della produzione all’estero. Si veda A. Sciotto, “Sempre più blu. Operai nell’Italia della grande crisi”, 2011); la presenza di una massiccia evasione fiscale, per far fronte alla quale le politiche di cosiddetto «risanamento» impongono drastici tagli alla spesa sociale (tagli che hanno l’effetto di bloccare la mobilità sociale, esasperare la polarizzazione tra le classi e il disagio delle aree più povere del paese, a cominciare dal Mezzogiorno); la storica indifferenza dell’imprenditoria alle sorti dell’economia nazionale, unicamente interessata a tutelare i margini di profitto contenendo i costi (a cominciare dal costo del lavoro: contraendo salari e contributi, intensificando orari e ritmi, etc.) piuttosto che investire in ricerca e competere sul fronte dell’innovazione (contribuendo così, oltre che al declino del sistema industriale nazionale, anche ad un crollo della produttività e ad una conseguente dequalificazione della forza-lavoro).

Edoardo Puglielli

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