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23 dic 2013

Attualità

RACCONTI DI MIGRAZIONI

Scrivere di immigrazione in tempi cosi difficili non è una cosa semplice, si rischia di cadere nel banale ma anche nella difficoltà di riuscire a farsi capire da chi ti ascolta. Non si può certo parlare di razzismo ma della consapevole e prevedibile paura di ciò che non conosciamo a far fare certi tipi di errori.

Questa è sicuramente una delle difficoltà più rilevanti connesse al fenomeno delle migrazioni; resta un problema anche in un paese che nasce da esperienze migratorie, tipo gli Stati Uniti che risentono, oggi come ieri, di spinte demagogiche e semplificatrici. Di seguito, un estratto della relazione dell'Ispettorato per l'immigrazione al Congresso USA sugli immigrati italiani del 1912.

“Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri.”

Il nostro paese ha anche subito nel secolo scorso avvenimenti di migrazioni interne con milioni di migranti che dal meridione salirono al nord con la “valigia di cartone” e che, è bene ricordarlo, furono alla base dello sviluppo economico industriale del paese ma che, successivamente, saranno bollati per decenni come “terroni”. Tale fenomeno non riguarda solo l'Italia ma anche altri paesi industrializzati, basti pensare alla crescita spasmodica di una città come Manchester in Inghilterra nel XIX sec. e il susseguente svuotamento di altri agglomerati urbani importanti come York o Nottingam, o ancora ciò che accade in Cina oggi, con migrazioni bibliche dalle provincie occidentali verso le nascenti aree industrializzate della costa. Ma solo da noi tale fenomeno ha avuto risvolti “strani” tanto da far sorgere addirittura una sorta di “razzismo” regionale di particolarità tutta italiana, con la nascita di forze politiche spiccatamente “regionalistiche” che non hanno nessun riscontro a livello europeo e storico. Paragonare la “Padania”-fino a venticinque anni fa non si sapeva neanche cosa fosse- alla Catalogna, al Bramante o peggio alla Scozia non ha semplicemente senso. Il termine terroni, insomma, non è stato consegnato ancora alla Storia. Lampedusa che politicamente è Italia ma geograficamente è Africa, è la porta dell'Europa; sempre lo è stata e sempre lo sarà, quindi è chiaro che siamo proprio noi che subiamo fortemente l'impatto di tali flussi migratori. Un mix esplosivo poi di un paese di frontiera, con la problematica stessa al suo interno e alle prese con una recessione economica che non fa altro che amplificare i disagi. Il paese, inteso come Italia ma anche come comunità locale in cui viviamo, tende a volte a dimenticare le nostre storie. Non c'è italiano che conosco che non abbia un parente emigrato. Non c'è persona che conosco, che non abbia almeno una volta sognato di migrare. Opporsi in modo deciso a tale fenomeno non è solo anti antropologico ma anche anti storico. Non c'è civiltà umana sostenitrice della purezza della razza che, per quanto potente, sia sopravvissuta alla Storia. La fine della città-stato greca Sparta ne è un esempio, con gli storici antichi e moderni concordi nell'affermare che gli spartani videro crollare il loro potere a causa del loro profondo conservatorismo. Chi invece ha accettato il multiculturalismo come valore ha visto la propria civiltà emergere e durare nei secoli e la stessa storia di Roma antica lo dimostra o come, volendo attualizzare il discorso, testimonia, nonostante le sue profonde contraddizioni, la storia degli Stati Uniti. Il fenomeno non è nuovo, ma l'impatto sui tempi moderni è molto cambiato rispetto al secolo scorso. Con l'avvento dell'economia globalizzata i migranti tendono sempre di più ad essere associati ai “movimenti dei fattori produttivi” che ogni manuale di economia-politica spiega in maniera esauriente, dove le persone sono considerate allo stesso modo delle merci. Questa considerazione non è nuova, ma la globalizzazione ha un impatto maggiore in quanto porta ad una sostanziale ristrutturazione e trasformazione delle economie locali da basi essenzialmente nazionali e tipologie sovranazionali. Poi, a differenza di altri tempi, le distanze si sono abbreviate in modo esponenziale. Se una volta, infatti, partire era una scelta difficile che comportava la quasi completa rottura delle relazioni con il luogo d'origine, per chi intraprende questa scelta oggi è molto semplice mantenere legami con il luogo natio. Basta, infatti, un telefonino di ultima generazione e un abbonamento telefonico con connessione dati per restare in contatto con i propri cari, mentre prima le telefonate erano costose e chiedevano tempi biblici per trovare la linea. Si potrebbe continuare con altri esempi, ma è ovvio che le moderne tecnologie hanno reso questo tipo di esperienze un po' meno gravi del passato. In ultimo poi, non bisogna dimenticare che una volta si partiva senza soldi e spesso con un basso titolo di studio, mentre oggi chi parte ha il trolley, un biglietto aereo e una buona base culturale. Questo naturalmente vale per chi parte da paesi sviluppati che, nonostante il particolare periodo storico, restano ancora agiati rispetto al resto del mondo in via di sviluppo o peggio sottosviluppato. Per questo tipo di migrante la strada è sempre quella dei viaggi della speranza, di un futuro difficile con la possibilità neanche di arrivare a destinazione dopo aver sborsato per la traversata somme maggiori del costo di una crociera di un mese nel Mediterraneo. Evitando di fare il solito qualunquismo che non rientra nelle nostre intenzioni, meglio sarebbe in questo caso allargare il campo e parlare di fenomeno migratorio, perché se c'è chi arriva (e molti non lo fanno per restare, ma sono di transito) altri partono. Proprio da qui nasce l'idea di voler raccontare le esperienze di questi tempi, di chi sceglie per un motivo o per un altro di migrare.
Abbiamo deciso quindi di aprire “parle serie” ai racconti di chi è partito oppure di chi è arrivato, senza scendere nel vittimismo, nel patetico o nel melodrammatico, perché dietro una partenza c'è comunque una scelta, sia che essa sia di vita, di necessità, professionale o altro, che potrebbe essere anche l'atavica voglia di avventura.



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