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22 set 2013

Fuori sede

Orti “insorti”[1] per altri rappOrti

Se si smettesse di guardare il paesaggio urbano elusivamente come l’oggetto dell’attività umana si scoprirebbero subito una quantità di spazi indecisi, privi di funzione, ai quali è difficile attribuire un nome. Gilles Clément, ingegnere paesaggista dell’École Nationale Supérieure pour le Paysage di Versailles per professione, “giardiniere” per autodefinizione, filosofo per forza di cose, ha attribuito a tali spazi il nome Terzo Paesaggio[2].
Diversi per forma, dimensione e statuto, essi rappresentano un residuo distinto sia dagli spazi mai sottoposti a sfruttamento (zone incontaminate) che dagli spazi protetti (riserve). Sono accomunati solo dall’assenza di ogni attività funzionale umana e, presi nel loro insieme, sono fondamentali per la conservazione della diversità biologica. Non si tratta di città né di campagna: è un’area dismessa. Non è l’infinito né il finito: è l’indefinito. Non è la destra né la sinistra: è l’indecisione. Ma, come afferma Clément, “il Terzo paesaggio è un luogo di indecisione per le amministrazioni e per l'utilizzo programmato da parte della società. Gli esseri viventi che lo occupano però - piante, animali, uomini - vi prendono delle decisioni agendo in tutta libertà e ne impiegano spazio e risorse rispondendo all'urgenza del proprio bisogno. Sono sempre, credo, urgenze dettate dalla biologia, niente affatto prevedibili. Ecco perché voglio insistere sulla necessità di 'prevedere' uno spazio dell'indecisione - cioè dei frammenti di Terzo paesaggio - in seno alle aree urbane o rurali affidate all'umano governo: voglio mettere in primo piano la necessità di governarne politicamente l'esistenza. È questa la posizione del Manifesto del Terzo paesaggio: il testo vuol essere al tempo stesso una constatazione e un grido”. Con questo “grido” Clément invita a guardare gli interstizi, gli spazi vuoti e deserti presenti per lo più nelle città (il ciglio della strada, campi incolti, margini di zone industriali), come luoghi di sperimentazione  per vivere meglio, rispondenti a bisogni sempre nuovi, siano essi puramente biologici o attinenti ad esigenze sociali.
Le ragioni di queste mie riflessioni non sono casuali; oltre ad essere suscitate da interessi personali mi riportano direttamente nella città in cui vivo: Bologna. Da neo-laureata in una facoltà che difficilmente riuscirà a garantirmi un futuro stabile ma, allo stesso tempo, desiderosa di restare a vivere nel capoluogo emiliano, sono coinvolta a pieno nell’iter burocratico tipico della ricerca di un lavoro. Un lavoro senza pretese, intendiamoci, che sicuramente avrà poco a che fare con il mio percorso di studi. Ebbene, proprio consultando di giorno in giorno un portale del comune di Bologna sulle possibili offerte di lavoro per i giovani, non ho potuto fare a meno di notare che da un po’ di tempo a questa parte l’unica proposta realmente interessante cita “richiesta di assegnazione orto urbano”. Gli orti urbani, chiamati anche orti sociali, sono appezzamenti di terreno solitamente ai margini delle città destinati alla produzione di frutta, verdura, fiori e ortaggi.  Questi spazi verdi di proprietà del comune sono assegnati a chi, per esigenze principalmente economiche, decide di dedicarsi alla loro coltivazione. Gli orti sociali appaiono per la prima volta  nel Regno Unito nel XIX secolo come fonte di sostentamento per disoccupati e bisognosi. Solo dopo la Seconda Guerra Mondiale questa esperienza si diffonde anche in Italia con l’intenzione di aumentare la produzione alimentare. A Bologna[3], nella fattispecie, l’assegnazione degli orti sociali ai pensionati è una tradizione consolidata da decenni. Da qualche anno a questa parte però, vista la crescente domanda, essa si rivolge anche ai giovani. Coltivare l'orto diventa così una soluzione immediata alla disoccupazione e alla crisi economica. In questo modo il guadagno è per tutti: il Comune acquista visibilità e prestigio migliorando i rapporti con i cittadini e diminuendo gli innumerevoli terreni inutilizzati che si contano soprattutto nelle periferie. Gli orti, in questo senso, rappresentano una delle possibili strade da percorrere per rivitalizzare socialmente le città e riappropriarsi, da cittadini attivi, dei non luoghi spersonalizzati che esse spesso rappresentano. Il cittadino dal canto suo, oltre ad avere la possibilità di risolvere, seppur minimante, una condizione di disagio economico dovuta all’assenza di un impiego, condivide un progetto di socializzazione e integrazione culturale e generazionale basato sulla convivialità.
L’importanza della correlazione tra il ritorno alla terra, l’autoproduzione alimentare, l’esigenza di istaurare sempre nuovi rappOrti e forme di mutuo appoggio de-istituzionalizzate per un miglioramento delle condizioni di vita è uno degli elementi teorici fondamentali del movimento per la decrescita di cui tornerò a scrivere.

Gaia Puglielli





[1] L’espressione non è mia. È tratta da un monologo di teatro civile, scritto e messo in scena da Elena Guerrini, che affronta con serietà e ironia temi legati all’ambiente, all’agricoltura, al cibo sano, alle lotte contadine, alla decrescita felice. Proprio un anno fa, partecipando alla 3ª conferenza internazionale sulla decrescita svoltasi a Venezia, ho assistito a questa rappresentazione con reale coinvolgimento e partecipazione. L’artista, infatti, chiede al pubblico un ingresso a baratto, un dono in cambio della sua esibizione. Con la stessa modalità ha creato e prodotto lo spettacolo: girando nelle cascine della maremma toscana nelle vesti di cantastorie del terzo millennio, Elena ha barattato la storia di suo nonno contadino con cibo, vino, olio e prodotti della terra, proponendo così ai spettatori un modo altro di vivere le relazioni e quindi l’economia.
[2] Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005.
[3] Indagine sulle varie esperienze di orti urbani a Bologna dal dopoguerra ad oggi: http://www.youtube.com/watch?v=DviHb90BOE

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