Le
date hanno usi e significati particolari per ogni popolo, dai piccoli rituali
di santi e profeti dei paesini e piccole comunità fino alle grandi date di
ricorrenza nazionale. Queste ricorrenze, tuttavia, possono essere anche date
che rimangono impresse per la tragedia e il dolore dell’evento che le ha
caratterizzate. Sarebbe inutile fare esempi. La data che sconvolse la vita di
molti di noi è stata e rimarrà per sempre il 6 Aprile.
L’aereo
del Presidente hutu del Ruanda, Juvénal Habyarimana, verso le 20:20 del 6
Aprile 1994 fu abbattuto a colpi d’arma da fuoco. Nelle ore che seguirono
l’attentato, la maggioranza hutu diede inizio allo sterminio della minoranza
tutzi. Il Ruanda fu travolto da un’ondata di violenza. Per cento giorni uomini,
donne e bambini innocenti furono violentati ed uccisi in nome di un insensato
odio razziale. Nessuno si oppose, nessuno cercò di aiutarli; tutti, da avvocati
a suore, da giovani a frati e suore, parteciparono a quelle violenze che
inorridirono il globo intero. Sembrava che qualche male arcano si fosse impossessato
della popolazione hutu e nessuno riusciva a spiegare razionalmente il perché di
tale gesto. In realtà, i responsabili della tragedia sono ben visibili ora che
il tribunale Ad Hoc dell’ONU, dopo vent’anni, ha dato il via al processo contro
i responsabili. Gli autori di questo massacro erano a lavoro da molto prima e i
responsabili ONU ne erano al corrente. Roméo Dallaire, comandante canadese dei
caschi blu in Ruanda, chiamò più volte, nei giorni precedenti e il giorno
stesso dell’inizio dell’escalation di violenza, la sede centrale a New York per
avvertire della minaccia e proponendo un modo per prevenirla; dalla commissione
per il mantenimento della pace, presieduta da Kofi Hannan (futuro Segretario
Generale Onu), respinsero ogni richiesta di rinforzi e ogni avvertimento. Non
vollero ammettere che in Ruanda esistessero minacce reali al mantenimento della
pace e dei diritti umani; i media del tempo, poi, nei limiti della tecnologia
del tempo, non si accorsero tempestivamente degli avvenimenti, poiché
focalizzati sulle prime elezioni libere del Sud-Africa. Così, tra chi non vide
e chi fece finta di non vedere, si consumò il più grande genocidio della storia
dell’umanità dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Era
un pomeriggio tiepido e piacevole, la primavera riprendeva le redini della sua
stagione tra le montagne abruzzesi, una domenica pomeriggio normale: gli
studenti e i cittadini si erano goduti il bellissimo centro storico dell’Aquila
e, sul far della sera, rincasavo per guardare il posticipo serale semplicemente per rilassarsi: si avvicinava
la Pasqua. Erano le 03:32 del 6 Aprile del 2009 quando la natura mostrò tutta
la sua devastante potenza davanti all’orgoglioso popolo del Centro-Abruzzo. Un
terremoto di 6.4 (questa è la reale media che la scala Richter segnò quella
notte), con sbalzi che raggiunsero il 7.2 di magnitudo, sorprese senza pietà la
popolazione addormenta. La tragedia è ormai consumata quando il sole sorge; la
sua luce illumina e mostra come il sisma abbia lacerato tutte le strutture del
capoluogo abruzzese e del suo circondario, compresi i cuori della gente che vi
abitava. Tutto portato via nel giro di cinque minuti: sogni, speranze,
ambizioni, giovani vite. Arrivano i politici, si precipitano i media. Poco
importa ai padri e alle madri che stanno seppellendo i propri figli, ai ragazzi
che stanno seppellendo compagni di studio, amici, amori; una flebile speranza
invece permane nei cuori di chi vorrebbe con tutto se stesso ripartire e
provare a dimenticare. “Vi siamo vicini” dissero, lo dissero tutte le
istituzioni, lo disse tutta l’Italia e alcuni hanno riso mentre lo dicevano,
perché in quel momento la moda era dire “siamo con i cittadini aquilani e
abruzzesi”. Nessun aquilano, nessun cittadino del Centro-Abruzzo ha mai chiesto,
né voleva la compassione degli altri, tutti insieme chiedevano solo di non
essere presi in giro. Lo sono stati comunque. Sul sisma di quella primavera
sono state scritte canzoni, sono stati fatti film, si sono organizzate grandi
riunioni internazionali, sembrava che si stesse muovendo davvero qualcosa dopo
lo stanziamento dei fondi. Tutt’oggi, però, mentre per il campetto da basket
per Obama ci son voluti 5 minuti, c’è gente che dopo cinque anni a L’Aquila può
dire ancora “yes, we camp”, senza aver visto un centesimo di quei fantomatici
fondi investito nella ricostruzione. Al di là dei tipici scandali che
attanagliano questa vicenda, c’è ancora un quesito che i cittadini dell’Aquila
pongono e per il quale non avrà, probabilmente, mai risposta: comprendere quale
sicurezza spinse i componenti della “commissione Grandi Rischi”, dopo cinque
mesi di sciame sismico, a dire alla gente “restate a casa, la situazione è
sotto controllo”.
Le
tragedie del “Genocidio del Ruanda” e del “Terremoto dell’Aquila” non hanno un
collegamento fra di loro, non hanno nemmeno un filo conduttore netto, né
tantomeno forniscono una morale di quelle tragedie, però qualcosa c’è. Oltre
all’analogia della data, questi due eventi mettono in mostra quel vizio umano
di sottovalutare i problemi, di prender sotto gamba situazioni che non ci
coinvolgono direttamente e che invece avrebbero avuto un esito diverso se
analizzate in diverso modo. E’ vero, non possiamo dirlo. Allo stesso modo,
però, non possiamo nemmeno dire che, se Hannan e i componenti della Commissione
Grandi Rischi avessero prestato più
attaccamento a quelle richieste d’aiuto, sarebbe stata la stessa cosa.
Gregory Marinucci
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