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4 mag 2014

Il parallelismo di una data

Le date hanno usi e significati particolari per ogni popolo, dai piccoli rituali di santi e profeti dei paesini e piccole comunità fino alle grandi date di ricorrenza nazionale. Queste ricorrenze, tuttavia, possono essere anche date che rimangono impresse per la tragedia e il dolore dell’evento che le ha caratterizzate. Sarebbe inutile fare esempi. La data che sconvolse la vita di molti di noi è stata e rimarrà per sempre il 6 Aprile.

L’aereo del Presidente hutu del Ruanda, Juvénal Habyarimana, verso le 20:20 del 6 Aprile 1994 fu abbattuto a colpi d’arma da fuoco. Nelle ore che seguirono l’attentato, la maggioranza hutu diede inizio allo sterminio della minoranza tutzi. Il Ruanda fu travolto da un’ondata di violenza. Per cento giorni uomini, donne e bambini innocenti furono violentati ed uccisi in nome di un insensato odio razziale. Nessuno si oppose, nessuno cercò di aiutarli; tutti, da avvocati a suore, da giovani a frati e suore, parteciparono a quelle violenze che inorridirono il globo intero. Sembrava che qualche male arcano si fosse impossessato della popolazione hutu e nessuno riusciva a spiegare razionalmente il perché di tale gesto. In realtà, i responsabili della tragedia sono ben visibili ora che il tribunale Ad Hoc dell’ONU, dopo vent’anni, ha dato il via al processo contro i responsabili. Gli autori di questo massacro erano a lavoro da molto prima e i responsabili ONU ne erano al corrente. Roméo Dallaire, comandante canadese dei caschi blu in Ruanda, chiamò più volte, nei giorni precedenti e il giorno stesso dell’inizio dell’escalation di violenza, la sede centrale a New York per avvertire della minaccia e proponendo un modo per prevenirla; dalla commissione per il mantenimento della pace, presieduta da Kofi Hannan (futuro Segretario Generale Onu), respinsero ogni richiesta di rinforzi e ogni avvertimento. Non vollero ammettere che in Ruanda esistessero minacce reali al mantenimento della pace e dei diritti umani; i media del tempo, poi, nei limiti della tecnologia del tempo, non si accorsero tempestivamente degli avvenimenti, poiché focalizzati sulle prime elezioni libere del Sud-Africa. Così, tra chi non vide e chi fece finta di non vedere, si consumò il più grande genocidio della storia dell’umanità dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Era un pomeriggio tiepido e piacevole, la primavera riprendeva le redini della sua stagione tra le montagne abruzzesi, una domenica pomeriggio normale: gli studenti e i cittadini si erano goduti il bellissimo centro storico dell’Aquila e, sul far della sera, rincasavo per guardare il posticipo serale  semplicemente per rilassarsi: si avvicinava la Pasqua. Erano le 03:32 del 6 Aprile del 2009 quando la natura mostrò tutta la sua devastante potenza davanti all’orgoglioso popolo del Centro-Abruzzo. Un terremoto di 6.4 (questa è la reale media che la scala Richter segnò quella notte), con sbalzi che raggiunsero il 7.2 di magnitudo, sorprese senza pietà la popolazione addormenta. La tragedia è ormai consumata quando il sole sorge; la sua luce illumina e mostra come il sisma abbia lacerato tutte le strutture del capoluogo abruzzese e del suo circondario, compresi i cuori della gente che vi abitava. Tutto portato via nel giro di cinque minuti: sogni, speranze, ambizioni, giovani vite. Arrivano i politici, si precipitano i media. Poco importa ai padri e alle madri che stanno seppellendo i propri figli, ai ragazzi che stanno seppellendo compagni di studio, amici, amori; una flebile speranza invece permane nei cuori di chi vorrebbe con tutto se stesso ripartire e provare a dimenticare. “Vi siamo vicini” dissero, lo dissero tutte le istituzioni, lo disse tutta l’Italia e alcuni hanno riso mentre lo dicevano, perché in quel momento la moda era dire “siamo con i cittadini aquilani e abruzzesi”. Nessun aquilano, nessun cittadino del Centro-Abruzzo ha mai chiesto, né voleva la compassione degli altri, tutti insieme chiedevano solo di non essere presi in giro. Lo sono stati comunque. Sul sisma di quella primavera sono state scritte canzoni, sono stati fatti film, si sono organizzate grandi riunioni internazionali, sembrava che si stesse muovendo davvero qualcosa dopo lo stanziamento dei fondi. Tutt’oggi, però, mentre per il campetto da basket per Obama ci son voluti 5 minuti, c’è gente che dopo cinque anni a L’Aquila può dire ancora “yes, we camp”, senza aver visto un centesimo di quei fantomatici fondi investito nella ricostruzione. Al di là dei tipici scandali che attanagliano questa vicenda, c’è ancora un quesito che i cittadini dell’Aquila pongono e per il quale non avrà, probabilmente, mai risposta: comprendere quale sicurezza spinse i componenti della “commissione Grandi Rischi”, dopo cinque mesi di sciame sismico, a dire alla gente “restate a casa, la situazione è sotto controllo”.
Le tragedie del “Genocidio del Ruanda” e del “Terremoto dell’Aquila” non hanno un collegamento fra di loro, non hanno nemmeno un filo conduttore netto, né tantomeno forniscono una morale di quelle tragedie, però qualcosa c’è. Oltre all’analogia della data, questi due eventi mettono in mostra quel vizio umano di sottovalutare i problemi, di prender sotto gamba situazioni che non ci coinvolgono direttamente e che invece avrebbero avuto un esito diverso se analizzate in diverso modo. E’ vero, non possiamo dirlo. Allo stesso modo, però, non possiamo nemmeno dire che, se Hannan e i componenti della Commissione Grandi Rischi  avessero prestato più attaccamento a quelle richieste d’aiuto, sarebbe stata la stessa cosa.

                                                                                                                                
Gregory Marinucci

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