La
«costituzione» neoliberista, spiega Burgio, si fonda essenzialmente su tre
pilastri: sul piano industriale, la delocalizzazione produttiva (che, grazie
alla rivoluzione informatica e dei trasporti, ha unificato il mercato mondiale
del lavoro e offerto al capitale la possibilità di giocare su enormi differenze
salariali); sul piano finanziario, la deregolazione (che ha permesso l’impiego
speculativo delle risorse in precedenza destinate all’economia produttiva) e la
liberalizzazione dei movimenti di capitale (che ha unificato i mercati
speculativi riducendo ai minimi termini la sovranità monetaria degli Stati);
sul piano politico-istituzionale, l’accentramento dei poteri negli esecutivi
(sia in ambito nazionale che nel contesto continentale europeo), che ha
permesso la direzione tecnocratica dei processi in simbiosi con le oligarchie
economiche [A. Burgio, Fascino e illusioni della democrazia diretta, 2013].
Di qui la
continua applicazione di politiche atte a
non interrompere l’immenso drenaggio di ricchezza, funzioni direttive e poteri
dal lavoro al capitale e dal pubblico al privato; la sistematica aggressione
alla dignità del lavoro (precarizzando, flessibilizzando, smantellando garanzie
e tutele giurisdizionali faticosamente conquistate in secoli di lotte sociali e
politiche); la privatizzazione di imprese e servizi pubblici; il continuo
taglio della spesa sociale (e non genericamente della spesa pubblica, che
invece cresce a ritmi costanti); la mercificazione di opportunità che in un
recente passato erano state tradotte in diritti dai sistemi di welfare.
Ciò che non era merce o che aveva
cessato di essere merce torna ad essere ri-colonizzato dalla logica mercantile.
Acqua, ambiente, natura, cibo, salute, patrimonio storico-artistico, trasporti,
‘beni comuni’ e tutto ciò che era ricchezza pubblica non alienabile e protetta
dal campo d’azione del profitto viene oggi trasformato in un grande business mediante un processo di privatizzazione,
aziendalizzazione e mercificazione senza precedenti. Questo processo coinvolge
direttamente anche l’istruzione. «Le
scuole» – sosteneva Friedman più di mezzo secolo fa – «saranno più efficienti
se saranno sottoposte alle leggi del mercato capitalistico e, come tutte le
aziende, entreranno in concorrenza le une con le altre per attirare i loro
clienti: gli studenti» [M. Friedman, The Role of Government in Education,
1955]. Il progetto di Friedman si va via via realizzando. L’idea è quella di «eliminare la gestione pubblica
delle scuole». L’istruzione dovrebbe «essere fornita tanto da imprese private a
fini di lucro quanto da organizzazioni no profit. Il ruolo del governo
si limiterebbe ad accertarsi che le scuole soddisfino determinati requisiti
minimi, come l’inclusione di un minimo di contenuti comuni nei propri
programmi, esattamente come oggi le autorità si assicurano che i ristoranti
rispettino gli standard igienici minimi» [M. Friedman, Capitalismo e libertà, 1962].
Subordinata alle leggi della
profittabilità, l’istruzione viene progressivamente sottratta alla sua funzione
sociale e democratica di trasmettere conoscenza a tutti i cittadini. Il grande
rischio, spiega Augé, è che «l’umanità di domani si divida tra un’aristocrazia
del sapere e dell’intelligenza e una massa ogni giorno meno informata del
valore della conoscenza. Questa disparità riprodurrà su scala sempre più grande
la disuguaglianza delle condizioni economiche» [M. Augé, Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo, 2009]. Le
trasformazioni in atto, infatti, ridefiniscono le finalità e gli obiettivi dei
processi educativi di massa. Il neoliberismo, nella misura in cui dissolve
l’essenza della cittadinanza democratica e pietrifica la mobilità sociale
fondata sul merito, necessita unicamente di individui ben addomesticati a
vendersi continuamente come merce più attraente e desiderabile delle altre in
un mercato del lavoro sempre più deregolamentato in cui – liberisticamente –
chi è più debole non sopravvive. Per questi individui non sono più richiesti
solidi curricoli formativi ma percorsi educativi di breve durata, corsi
flessibili, seminari di pochi giorni, kit di autoapprendimento facili da usare
e disponibili in qualsiasi punto vendita di videogiochi. «I tipi di competenze
richiesti per praticare occupazioni flessibili», spiega Bauman, «non comportano
un apprendimento sistematico e a lungo termine; più frequentemente, essi
trasformano in svantaggio un corpo logicamente coerente e ben conformato di
capacità e abitudini acquisite, che un tempo costituiva una risorsa» [Z.
Bauman, L’istruzione nell’età postmoderna,
2000]. In questo senso, continua il sociologo, il ‘successo’ degli uomini
postmoderni «dipende dalla velocità con cui riescono a sbarazzarsi di vecchie
abitudini piuttosto che da quella con cui ne acquisiscono di nuove», dalla
capacità di adattarsi con facilità ad esperienze sempre nuove, frammentarie, prive
di continuità e di direzionalità.
Il tipo d’uomo necessario alla
produzione e alla riproduzione dell’ordine neoliberista è quello che Sennet ha
definito «uomo flessibile» [R. Sennet, L’uomo
flessibile, 1999], un uomo a cui è richiesta l’interiorizzazione
incondizionata della disciplina imposta dal principio di competitività globale,
la massima subordinazione alle esigenze dell’ordine produttivo e la capacità di
riciclarsi e di rimodellarsi in modo permanente attraverso un lavoro sempre più
flessibile e precario. Ad essere fortemente precarizzato e flessibilizzato è
oggi il lavoro cognitivo, trasformato dalla rivoluzione informatica in
forza-lavoro estremamente duttile e sempre pronta ad adeguarsi alle esigenze
della produzione. Se fino ad un recente passato il lavoratore intellettuale
disponeva del pieno dominio sul proprio tempo di vita e di lavoro, oggi la forza-lavoro
mentale è sottoposta a precarizzazione dilagante, despecializzazione, massima
instabilità lavorativa e sociale. Per la gran parte di questi lavoratori è
pressoché sparita la certezza di essere depositari di una professione. Essi
sono costretti a cedere all’acquirente piena disponibilità sia temporale che
psicologica in cambio di salari spesso vicini alla pura sussistenza. «Al
privilegio sociale ed economico del ruolo intellettuale si sostituiscono
instabilità, precariato e stipendi da sussistenza; al precedente
padroneggiamento del proprio tempo di lavoro e di vita, la totale disponibilità
cronologica e psicologica richiesta dai nuovi mestieri. Finisce, o tende a
finire, una volta per tutte l’illusione di possedere una professione – come
l’illusione di possedere un mestiere, un’abilità manuale specifica, terminò con
la resa degli artigiani al regime industriale di fabbrica. Allora per quegli
artigiani, oggi (e ancor più in prospettiva) per l’intellettuale-massa resta
solo la capacità di erogare lavoro produttivo in senso capitalistico, astratto:
allora prevalentemente manuale, oggi mentale. Alla ‘libera’ professione si
sostituiscono il lungo curriculum del precariato, tendenzialmente coincidente,
per molti, con la stessa vita produttiva, e lo sfondamento verso il basso del
confine tra vecchia professione e nuovi mestieri salariati: da medico a
‘curandero’ tuttofare, da architetto/ingegnere a disegnatore pagato a cottimo,
da matematico a programmatore saltuario, da psicologo ad assistente
domiciliare, da giornalista a impiegato passa-veline di agenzia. Svanisce la
certezza di poter disporre appieno della propria mente, delle sue ideazioni,
del proprio tempo extralavorativo. Il Capitale», spiega Bernocchi, «non si
accontenta più né delle braccia, né del prodotto mentale, né accetta più il
loro uso a tempo determinato: vuole l’anima del lavoratore, la sua
partecipazione globale al processo di valorizzazione, e a tempo pieno. Qualità
totale in tempo totale» [P. Bernocchi, Dal
sindacato ai Cobas, 1993].
Edoardo
Puglielli
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